

Aprile 2008
ANCHE NOI SIAMO “NOI, I RAGAZZI
DELLO ZOO DI BERLINO”
È un libro del 1980, ma la storia è attuale come
non mai. Come tutte le storie che narrano di situazioni scomode,
di disagio, della società, dei ragazzi. Il tema affrontato
da questo che ormai è diventato un classico, non è
solo quello della droga, ma anche quello della solitudine, della
famiglia che non c’è e di una società che
urla “al colpevole” ma non fa nulla per cambiare la
situazione. Sullo sfondo di una Berlino squallida e dai contorni
poco definiti si staglia il disagio di una ragazza
che, a quattordici anni, è un’eroinomane. Christiane
ha sei anni quando si trasferisce da un piccolo paese di provincia
a una città, Berlino, con tante promesse da parte dei suoi
genitori, nessuna delle quali verrà mantenuta. Si sente
persa Christiane, e per questo cerca di entrare a fare parte del
gruppo di quelli forti, “pazzescamente forti”. All’interno
del gruppo tutti si vogliono bene, e a Christiane piace, il gruppo
è la sua famiglia, quella che non ha, rappresentata da
un padre fiero e borioso che la picchia e da una madre troppo
debole per fare qualcosa. Inizia con una canna, uno sballo in
discoteca, e si convince che lei non diventerà mai come
i bucomani dell’ero. Perchè è consapevole
che tutto quel mondo è uno schifo, che si muore di ero.
Eppure anche lei all’ero ci arriva, quando conosce un ragazzo
che diventa il suo principale motivo di vita: bucomane, troppo
debole per obbligarla a non imitarlo. Prima una sniffata, poi
un buco e un altro… sempre pensando che “tanto non
divento dipendente”… fino a non poterne fare a meno.
Christiane narra, senza peli sulla lingua, la vita di un bucomane
che non pensa ad altro che a procurarsi soldi, che arriva a battere
per un buco, che vive tra i bagni puzzolenti di una stazione e
la casa di un amico la cui moquette emana un puzzo insopportabile
perché “quando Axel si faceva una pera, tirava fuori
la siringa con i residui del sangue dal braccio, la riempiva d’acqua
e spruzzava tranquillamente quella broda rosa sulla moquette”.
A poco a poco tanti tra gli amici di Christiane muoiono, ma nemmeno
questo le dà la forza di prendere in mano la sua vita.
Dov’è finita l’innocenza delle ragazze di quattordici
anni? Christiane è ancora una bambina coi suoi sogni, e
quando va a casa della nonna in campagna, le piace giocare con
i suoi coetanei, mettersi le scarpe senza tacco, stare senza trucco…
eppure non ha la forza di fare il passo che le permetterebbe di
salvarsi: banalmente, stabilirsi dalla città alla campagna.
Perché? Perché è sola. Perchè ha alle
spalle una madre che non si accorge nemmeno che lei dimagrisce
a vista d’occhio, che quando non si sveglia la mattina è
perché è “a rota”, che non percepisce
il suo disagio. E una domanda, nella mente del lettore, nasce
spontanea: com’è possibile? Alla fine sarà
proprio il ritorno alle sue origini, alla casa della nonna e degli
zii, che la salveranno. La madre, stremata dai troppi tentativi
di disintossicazione falliti, manda Christiane lontano da Berlino
dove inizierà per lei una nuova vita. È un libro
forte, molto forte, una testimonianza preziosa che dovrebbe essere
letta da tutti gli adolescenti, per spaventarli, per far capire
loro che la droga non è uno scherzo, e da tutti i genitori,
perché passi un importante messaggio: che dedichino più
tempo ai loro figli. È in fondo anche una storia di emarginazione,
perché i drogati ci fanno paura, e invece bisognerebbe
soltanto avere pietà per una persona che è troppo
debole e non ce l’ha fatta ad affrontare la vita da sola.
Io personalmente l’ho letto quando ero adolescente e l’ho
riletto oggi che ho 26 anni e credo che sia la più bella
testimonianza di verità che sia mai stata pubblicata, la
testimonianza dell’indifferenza della nostra società
verso chi è in qualche modo diverso.
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