Hospice
di Erba, un servizio al malato terminale
Dicembre 2008
Di Enrico Viganò

Accompagnare i malati non assistibili a
domicilio e in fase avanzata o terminale mediante il controllo
del dolore e del disagio fisico o psichico: è questa la
finalità che si pone l’hospice “Il Gelso”
di piazza Prina a Erba. Sorto il 13 dicembre di tre anni fa l’hospice
di Erba garantisce un’assistenza medica e infermieristica
24 ore su 24, per tutto l’anno.
In Lombardia gli hospice sono una cinquantina. In provincia di
Como sono tre con sede presso gli ospedali di Como e di Mariano
Comense e presso Ca’ Prina appunto di Erba.
Una realtà assistenziale, però, non molto conosciuta
tra la popolazione. Infatti una recente ricerca dell’Ipsos
conferma che ben il 76% degli italiani non ne conosce l’esistenza.
E questa mancanza di informazione adeguata è forse la causa
che alcuni hospice non siano pienamente utilizzati. “L’hospice
di Erba – dice il presidente di Ca’ Prina, Antonio
Frigerio – vuole offrire un sostegno alle famiglie in difficoltà
ed è completamente a carico del servizio sanitario”.
Direttore sanitario è la dott. Antonella Biffi, che con
il medico responsabile dottoressa Evelina Perego, guida un’equipe
sanitaria composta da medici, psicologa, infermieri, assistente
sociale e assistente spirituale. Una figura quest’ultima,
fondamentale. “Da non confondere, però, con il cappellano
– precisa padre Aldo Ferrari, passionista, assistente spirituale
de “Il Gelso” – il cappellano è chiamato
soprattutto per l’amministrazione dei sacramenti. Il mio
compito, invece, è di creare un contatto con il malato
per accompagnarlo nel suo cammino verso l’incontro con il
Mistero ultimo della vita”.
Al “Il Gelso” i pazienti sono in camera singola, spaziosa,
con servizi indipendenti: tutto è finalizzato a garantire
il più elevato livello di umanizzazione possibile. “Nell’hospice
– continua p. Aldo Ferrari – il malato deve avere
la consapevolezza che tutti sono a sua completa disposizione.
L’incontro settimanale dell’equipe per me è
fondamentale perché mi permette di conoscere la situazione
interiore che i singoli degenti stanno vivendo. Con il malato
parlo di tutto, ma soprattutto cerco di stargli vicino, perché
possa superare la solitudine, il vero dramma di questi malati.
E’ la solitudine che porta all’eutanasia, più
che la sofferenza. La voglia di farla finita scaturisce dal sentirsi
abbandonato da tutti. E’ importante per questo instaurare
un rapporto empatico sia con il malato, che con i parenti. Dico,
con i parenti.
Perché a volte i parenti sono di ostacolo a chi soffre.
O non dicono mai la verità pensando che il loro congiunto
non intuisca, oppure lo deprimono maggiormente. La verità,
è vero, non va sbattuta in faccia, ma va detta gradualmente.
E sempre con carità”.
Quella dell’assistente spirituale è una missione,
sicuramente non facile. “Purtroppo alcuni – conclude
p. Aldo – non vogliono l’accompagnamento del sacerdote
cattolico, e anche a me è capitato di essere rifiutato.
Ma generalmente il malato se trova persone che gli vogliono bene,
che lo amano, supera lo scoramento.
La psicologa e psicoanalista Marie de Hennezel dice che con loro
occorre avere un rapporto aptonomico, cioè di un approccio
affettivo, fatto anche di carezze, di contatto rassicurante, terapeutico,
vitale. Lo stesso che diamo ad un bambino bisognoso di tutto.
Insomma occorre molto amore. Proprio di questo ha bisogno la nostra
società sempre più laicizzata dove si preferisce
usare neologismi o parole ambigue, invece delle parole sempre
rassicuranti come amore, accompagnamento, carità, Dio”.
|