Il
Magni
Dicembre 2008

E’in libreria in questi giorni il
libro di Emilio Magni “Ciumbia che bèla tusa”.
Dopo “Il dialetto dei mestieri perduti”, pubblicato
l’anno scorso con successo di vendite, questo nuovo lavoro
del giornalista di Erba è edito da Mursia. “Ciumbia
che bèla tusa” è sugli stessi motivi del precedente.
Raccoglie una lunga sequenza di racconti brevi (in italiano) che
traggono tutti spunto da parole in dialetto: termini che si trovano
solo nella parlata vernacola alto lombarda, o insubrica, come
a qualcuno piace dire, che non hanno quindi un corrispettivo diretto
nella nostra lingua nazionale. Oppure sono parole che hanno un
valore e un significato intenso e diretto solo se espresse in
dialetto. O si dicono in dialetto, altrimenti si può fare
a meno di dirle. “Ciumbia” (poche lettere per esprimere
sorpresa, compiacimento, e tante altre emozioni) è uno
dei tanti esempi di questo “parlare” genuino e che
viene assai da lontano.
Tra i tanti vocaboli “tirati qua” da Magni figura
per esempio “andadura”, che viene evidentemente dall’italiano
“andare”. Ma se traduciamo l’ “andadura”
in italiano, questa diventa l’ andatura, ovvero il modo
di camminare di una persona. Ma non è questo il significato
vero dell’”andadura”, termine dialettale. In
Brianza, nel Milanese, in tante altre terre, lande e vallate prealpine
e insubriche i contadini di un tempo usavano “l’andadura”
per far imparare ai bambini piccoli a camminare, cioè ad
andare. L’infante era infilato nel buco di un asse quadrato
che scorreva, tramite guide, su sue pali . Poteva così
camminare, avanti e indietro a suo piacimento senza correre alcun
pericolo di cadere. Per spiegare tutto questo in italiano occorre
almeno una dozzina di parola. Per dirla in dialetto ne basta una:
“andadura”. E più chiaro di così proprio
non si può. Questa è la grande forza del dialetto
che talvolta permette davvero una sintesi estrema del pensiero.
Quelli che parlano moderno potrebbero adoperare il termine poco
bello di “contenitore”, per dare una definizione odierna
all’arcaico e vernacolo “tegàsc”, che
per i contadini era la pelle dell’acino d’uva: “pinciröö”in
dialetto milanese, comasco e brianzolo. L’origine di “tegàsc”
sarebbe dunque addirittura latina, secondo Francesco Cherubini.
Potrebbe, infatti, arrivare da “tegumentum” che vuol
dire coperta, riparo, rivestimento. Il “tegàsc”
riporta dunque al mondo contadino, alle vendemmie, alle storie
legate a lontane stagioni del mondo rurale.
Anche se a più riprese l’autore si diverte ad andare
a ricostruire l’origine delle parole dialettali, “Ciumbia
che bèla tusa” è lontano di molto dall’opera
didattica, tanto meno cattedratica. Magni, come per i “mestieri
perduti” e il loro nome in dialetto, ricorre al racconto
diretto con ambientazioni molto popolari, paesane, ambientate
molto spesso in osteria o al bar, essendo ormai le vere osterie
tutte scomparse. Protagonista delle piccole storie è gente
comune che ricorre a qualche parola in dialetto per rendere più
diretto, espressivo, sapido e gustoso il suo raccontare vicende
qualche volta commoventi, o tragiche, oppure balorde, addirittura
pazze, o sconvolgenti: vita di tutti i giorni, famiglia, lavoro,
amori e preghiere, allegria e disperazione.
A Magni piace dire di non essere un esperto del dialetto, ma soltanto
un appassionato del “bel raccontare” che era dei suoi
nonni contadini e di sua madre, un patrimonio che è sacrosanto
conservare perché in esso è la cultura popolare
delle nostre terre. L’importante è dunque tramandare
questi valori assieme a immagini, atmosfere, sensazioni degli
ambienti e dei luoghi in cui il dialetto era parlato ed era vissuto.
I racconti di Magni sono corredati da una cinquantina di immagini
di “quei tempi” in cui il dialetto era quasi la “lingua
madre”, in casa, nella cascina, nella stalla, in sagrestia,
nei campi coltivati, negli opifici, nelle fucine e nelle botteghe
dei “legnamée”.
Emilio Magni
“Ciumbia che bèla tusa”
Mursia Editore
17 Euro
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