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LA SINISTRA E LA LEGGE BIAGI

Gennaio 2007
di Nazareno Panichella

La legge Biagi sarà ricordata per l’enorme mistificazione che il mondo politico le ha creato attorno. Maggioranza e opposizione, divise su tutto ma accomunate nell’incapacità di comprendere il contenuto della legge, hanno creato una subdola alleanza volta a presentarla come uno strumento di liberalizzazione del mercato del lavoro: da una parte per lodarla, dall’altra per demonizzarla. Purtroppo ancora pochi sono gli studiosi, giornalisti e politici che tentano di liberare il dibattito su questa materia dalla palude delle contrapposizioni ideologiche e farlo scendere sul ben più nobile terreno del ragionamento pragmatico. Un esempio piuttosto imbarazzante è quello di Atesina: un grande call center in cui gli ispettori del lavoro, facendo leva proprio sulla legge 30, hanno ordinato la trasformazione di migliaia di collaborazioni fittizie in normali rapporti di lavoro subordinato. La sinistra radicale ha avuto il coraggio di esaltare l’azione degli ispettori, ma nello stesso tempo insiste per l’abrogazione della legge Biagi. La contraddizione evidente sembra, a questo punto, dolosa. Per non pensare poi all’attacco del centro sinistra durante la campagna elettorale alle forme di lavoro “più precarizzanti” introdotte dalla legge, primo fra tutte lo staff leasing. Com’è possibile non vergognarsi di una classe politica che, astrattamente, dovrebbe dar voce alle istanze dei lavoratori precari ma che, al contrario, nell’azione politica concreta, si lascia sedurre dai possibili benefici elettorali delle strategie populiste? Lo staff leasing, infatti, è una tipologia di lavoro dove sono applicati tutti i diritti del lavoro standard, articolo 18 compreso, e quindi non risulta affatto precarizzante. Che imbarazzo si prova a pensare che chi sì autoproclama tutore degli interessi dei lavoratori, mentre critica e promette l’abrogazione dello staff leasing, non si scaglia con uguale ferocia verso una ben più grave forma di elusione delle tutele del lavoro: l’appalto di servizi. In pochi hanno avuto il coraggio di apprezzare il disegno originario di Marco Biagi, cioè quello di ricalibrare il diritto del lavoro con l’intento di renderlo capace di contenere e regolare tutta la realtà del tessuto produttivo. È vero, la Biagi ha introdotto alcuni nuovi elementi di flessibilità, ma, nello stesso tempo, ha posto come obiettivo fondamentale la lotta all’utilizzo improprio degli strumenti della flessibilità: il più evidente è quello riguardante l’abuso delle collaborazioni autonome continuative (co.co.co.). Ed è proprio questo l’aspetto della legge che sta funzionando di più: i dati mostrano chiaramente che, dopo la sua entrata in vigore, il numero di parasubordinazioni nel settore privato è nettamente diminuito. Altro che “grande liberalizzazione”, altro che “precarizzazione”: i problemi della legge sono ben altri ed il mondo politico lo sa. I primi grattacapi li ha avuti naturalmente il ministro del Lavoro Damiano, che è ben conscio di quello che potrebbe accadere se, in nome della lotta al precariato, l’applicazione rigorosa della legge Biagi dovesse estendersi a tutti coloro che abusano delle collaborazioni autonome: se un lavoratore a progetto può costare la metà rispetto ad un lavoratore subordinato che svolge le stesse mansioni, un’applicazione ferrea della legge si traduce matematicamente in una perdita rilevante di posti di lavoro. Preoccupazione più che legittima, visto che i casi di collaborazioni fasulle sono ancora moltissimi. Paradossalmente, quindi, è proprio la tanto odiata legge Biagi che pone il governo di fronte all’alternativa tra combattere per davvero il precariato, a rischio di licenziare molta gente, o, per evitare sconquassi, lasciare sostanzialmente le cose come stanno. Forse è per questo che, attraverso l’artificiosa creazione di stereotipi e pregiudizi, la si vuole abrogare: per eliminare il problema politico senza interessarsi della reale condizione dei precari! Certo, ci sono anche soluzioni alternative, come quella di portare avanti una riforma profonda del nostro diritto del lavoro e del nostro sistema di relazioni industriali, in modo da comprendere e regolare l’intero tessuto produttivo in tutta la sua complessità e con tutti i suoi squilibri interni: passaggio indispensabile, questo, per mirare ad una riduzione graduale delle disuguaglianze nell’accesso al mondo del lavoro. Ma siamo in Italia e certi passaggi, politiche e idee sono poco appetibili per un elettorato sempre più disattento, schiavo dei luoghi comuni, e si ricorre ancora una volta ad appellare le possibili soluzioni come strategie “politicamente sconvenienti”. Dobbiamo chiedere al governo di affrontare il grave problema del precariato con un’ottica differente, libera da preconcetti e pregiudizi ideologici; ma nel far questo bisogna fare i conti con un grande ostacolo: la messa in discussione dei troppi benefici del vecchio e lacunoso sistema.

di Nazareno Panichella

 
 
 
       

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