ANCORA
SUL TEMA DELLA MORTE
Gennaio 2007
Le riflessioni sulla morte apparse su questa
rubrica in data 27 ottobre u.s. hanno suscitato molto interesse
e mi sono giunte numerose e-mail di chiarimenti. Mi è stato,
in sostanza, chiesto se è possibile razionalizzare la morte
per superare l’angoscia che essa provoca e come prepararsi
per affrontare la perdita di una persona cara. Il filosofo Epicuro
voleva liberare l’uomo dalle sue paure, tra le quali avevano
un posto di rilievo quella per gli dei e quella per la morte.
Riguardo agli dei egli diceva che, se pure dovessero esistere,
vivono negli spazi tra mondi e mondi, intenti a godersi la loro
vita beata e, pertanto,
del tutto indifferenti alle vicende e agli affanni degli uomini,
mentre per quanto concerne la morte sosteneva che quando ci siamo
noi la morte non c’è e quando, invece, c’è
la morte non ci siamo noi. Noi e la morte siamo destinati a non
incontrarci: però la realtà è ben diversa
e quando essa ci porta via una persona cara sentiamo la nostra
esistenza profondamente scossa, anche se consapevoli che la morte
è un aspetto della stessa vita umana, una dimensione ineludibile
che ci accompagna dall’atto stesso di venire all’esistenza.
Un noto sillogismo aristotelico recitava: “Tutti gli uomini
sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è
mortale”. Aristotele per sillogismo intendeva un ragionamento
perfetto costituito da tre proposizioni, di cui le prime due fungono
da antecedente e la terza da conseguente, cioè è
la conclusione che “consegue” necessariamente alle
premesse e, nella fattispecie, ne deriva che “Socrate è
mortale”: ma questo ai nostri occhi sembra riguardare solo
Socrate e non anche noi, perché noi non riusciamo a concepire
la nostra morte. Di tutte le persone morte possiamo manzonianamente
dire “Ei fu” ma questo non possiamo dirlo di noi stessi
e se mai la morte dovesse coglierci riteniamo che con essa si
spegnerà l’intero universo perché il cielo
stellato, il sole, la luna, il mare e tutto ciò che di
bello è davanti ai miei occhi sembra esistere perché
sono io a vederli e nel vederli li faccio esistere. Se io muoio
muore insieme a me anche ogni cosa che vive nella mia percezione,
sebbene questo tutto che muore con me continuerà ad esistere
in rapporto alla percezione e alla coscienza di un altro. Non
dobbiamo farci angosciare da quella che il filosofo Kierkegaard
definiva “la malattia per la morte” con la quale voleva
intendere quello stato di disperazione in cui perdiamo il senso
più profondo della nostra esistenza non facendo altro poi
che anticipare la morte mentre ancora siamo in vita. La morte
è sì ineluttabile ma non dobbiamo ammalarci in vita
per essa, anzi la morte deve essere come una bussola che guida
la nostra esistenza. Intesa in tal modo diventerà una fonte
d’energia perchè noi, divenuti consapevoli del tempo
limitato a nostra disposizione, del fatto di essere in “carestia
di tempo”, siamo sollecitati ad agire. La morte cessa allora
di essere sconforto e diventa stimolo ad un progetto per una vita
che possa avere significato. Nel “Simposio” Platone
diceva che l’uomo per salvarsi dalla morte ed essere felice
deve perpetuare se stesso attraverso l’amore; Eros è
desiderio di vincere la morte attraverso la generazione: nel germe
di una vita che sta per nascere vi è un embrione di immortalità.
Simone Weil diceva, a sua volta, che l’unico criterio per
capire se i bisogni dell’uomo sono soddisfatti in qualche
luogo è vedere se in tal luogo vi è una fioritura
di fraternità, di gioia, di bellezza e di felicità,
mentre se c’è ripiegamento in se stessi ci troveremo
davanti solo tristezza e bruttezza. A coloro che mi hanno chiesto
come affrontare la perdita di una persona cara ho consigliato
di immaginare che questa persona si rivolga a noi e ci dica queste
parole di S. Agostino: “La morte non è niente. Sono
solo passato dall’altra parte: è come se fossi nascosto
nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello
che eravamo prima l’uno per l’altro, continuiamo ad
esserlo ancora. Chiamami con il nome col quale mi hai sempre chiamato
e che ti è familiare, parlami nello stesso modo affettuoso
che hai sempre usato con me. Non cambiare tono di voce, non assumere
un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quelle cose
che ci facevano ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia
sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima
traccia di ombra o di tristezza. La nostra vita conserva intatto
tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di
prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua
mente? Solo perché sono fuori dalla tua vista? Io non sono
lontano, sono solo dall’altra parte, proprio dietro quell’angolo.
Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne troverai
la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere
se veramente mi ami: il tuo sorriso è la mia pace”.
Lo stesso S. Agostino aveva detto che non possiamo mai perdere
le persone che amiamo perché continueremo ad amarle, e
perciò trovarle, in Colui che non si potrà mai perdere.
lbuttinifilos
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