La
riforma contrastata
Giugno 2005
di Dario Meschi
Seppur lentamente e con tempi di discussione
contingentati, prosegue il cammino controverso della riforma costituzionale,
tenacemente voluta dalla maggioranza di governo, e in particolare
dalla Lega Nord, e duramente contrastata dall'opposizione. L'approvazione
è ancora lontana e si concluderà, considerata l'importanza
dell'argomento, con un referendum popolare dall'incerto esito
finale.
Comunque vada, ammesso che la modifica della Costituzione venga
definitivamente approvata, ci troveremo di fronte ad un nuovo
testo senza una condivisione plebiscitaria, e con il Paese spaccato
in due, diversamente da quanto era accaduto durante i lavori della
Costituente. Infatti, nell'immediato dopo guerra, al contrario
di quello che sta ora accadendo, si giunse ad un vasto e condiviso
consenso sui contenuti del documento costituzionale senza grandi
traumi nel rispetto del requisito essenziale insito in ogni buona
costituzione politica: quello dell'unione del popolo.
E' compito della Costituzione realizzare un equilibrio fra le
diverse funzioni dello Stato, per evitare che una sola possa prevalere
sulle altre. Nell'attuale ordinamento, l'elemento fondamentale,
il vero arbitro, è il Presidente della Repubblica, in quanto
Capo dello Stato interprete dell'unità nazionale (art.
87), col potere di cui dispone, sentiti i loro presidenti, può
sciogliere le camere (art. 88).
Nella nuova proposta il Presidente è confermato Capo dello
Stato, ma perde i poteri di scioglimento delle camere che sono
trasferiti invece al Primo Ministro. In questo modo la facoltà
di scioglimento passa da un rappresentante super partes (eletto
con la maggioranza assoluta dei voti espressi dai due rami del
Parlamento) al capo del governo, rappresentante di una parte politica,
quindi maggiormente condizionato e condizionabile dalle logiche
delle alleanze, e dal senso di appartenenza ad un gruppo in antitesi
ad un altro: la maggioranza espressa dalle elezioni assume così
un potere forte, per alcuni eccessivo, rispetto alla parziale
legittimazione popolare. L'importante modifica aumentando i poteri
del Capo del governo rafforzerebbe così la stessa maggioranza
che lo sostiene potendolo condizionare, e non offrendo le necessarie
garanzie nei confronti della minoranza. La maggioranza potrebbe
inoltre costringere il Primo ministro alle dimissioni, in seguito
ad una mozione di sfiducia, mentre l'opposizione sarebbe impossibilitata
a farlo se i suoi voti dovessero diventare determinanti.
Si verrebbe così a creare nel Parlamento una disuguaglianza
tra il potere dei deputati eletti tra i vincitori e quelli seduti
sui banchi dei vinti, violando il principio che impone, in un
regime democratico, l'eguaglianza di tutti i partecipanti alle
deliberazioni sovrane.
L'assemblea legislativa trasferirebbe il potere effettivo di controllo
sull'operato del governo alla maggioranza espressa dalle elezioni,
perdendo autorevolezza e capacità di controllo sulla corretta
approvazione di deliberazioni assunte nell'esclusivo interesse
comune.
I fautori della riforma difendono il loro progetto considerandolo
indispensabile per garantire governabilità, facendo risaltare
uno spirito fortemente presidenzialista, invocando la necessità
di stabilità dei governi e della continuità della
legislatura, anche se questa esigenza potrebbe essere soddisfatta
con altri interventi, magari istituendo la sfiducia costruttiva,
o con leggi di sbarramento capaci di rendere più omogenei
i governi, limitando la frammentazione partitica che è
degenerata al punto da rappresentare, mai come ora, un vero e
proprio paradosso.
La democrazia non sarebbe però in pericolo, in quanto la
maggioranza sarebbe ancora e sempre espressione del voto dei cittadini.
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