EX
Giugno 2008
di Stefano Ratti
Mi piace molto il whisky, la grappa, il
cognac, la birra. So che è un brutto vizio, ma ormai nella
mia vita non è rimasto nient’altro. Una volta avevo
una moglie, mi sembra, è passato tanto tempo. Avevo dei
ricordi di mia moglie, dei ricordi scomparsi e mai più
ritrovati nel famoso cassetto della memoria, forse perché
non vale nemmeno la pena cercarli. Sembra incredibile ma, non
rammento neppure il suo volto, neppure il motivo per cui un giorno
se ne andò senza una spiegazione, non avevamo tempo per
le spiegazioni: troppo impegnati a litigare, a farci del male,
a sputarci addosso veleno. E’ strano. Questo lo ricordo
bene. Ricordo le frasi cattive, i litigi, ricordo solo quello.
Mia figlia? Ho una figlia, ma è tanto che non la vedo,
anche lei. Presumo che le dispiacesse il fatto di dover andare,
ogni notte, a cercare il suo “amato” genitore in tutte
le bettole di Milano, portandomi poi a casa (quando riusciva a
trovarmi), ubriaco e mezzo incosciente. Suppongo avesse ragione,
suppongo di non essere un bell’esempio per i miei nipoti,
per i suoi figli. Ogni mese riscuoto regolarmente la pensione
all’ufficio postale, una pensione da ex poliziotto. Ex poliziotto,
ex marito, ex padre. Con la pensione di anzianità percepisco
una piccola pensione di invalidità per una pallottola che
mi sono preso in una gamba nel tentativo di sventare una rapina.
Ogni tanto, quando il tempo cambia, mi fa male, ma non bado al
dolore, sono altre le cose che mi tormentano. Appoggiato al bancone
del bar, guardo il mio bicchiere vuoto con gli occhi fissi verso
un punto indefinito. Non so con chi parlare, chi guardare. I pochi
clienti che ci sono mi evitano, ma io non faccio caso a loro.
Deve essere molto tardi e a stento, intravedo l’orologio
a muro del locale, mi sembra che segni le tre. Ha che ora chiude
questa stamberga? Quanti bicchieri ho bevuto stasera? Vai a saperlo!
Ne voglio ancora, qualsiasi cosa fosse il liquido che ho ingurgitato
fino adesso. Chiamo il barista: “Cecco, dammene un altro
va’!” Io e Cecco ci conosciamo da anni. Il suo vero
nome e Francesco, ma tutti lo chiamano Cecco. Ha ereditato questo
bar dal padre, ed è forse uno dei pochi bar non trasformati
in moderni pub per ragazzini urlanti e rimbambiti dalla musica
a tutto volume. “Hai bevuto abbastanza Ale, è meglio
che vai a casa, te ne ho dato anche fin troppo, se te ne verso
ancora e passano i carabinieri, passo un guaio, mi tolgono la
licenza” dice preoccupato. Osservo il mio bicchiere, sconsolato,
io, non il bicchiere. Faccio lo sforzo di pensare, ma la cosa
mi riesce difficile. Al diavolo! Me ne vado, me ne sbatto di Cecco,
del suo pessimo whisky, (penso fosse whisky), di tutto e di tutti.
Andrò a bere da un’altra parte. Ho la nausea, e ho
voglia di vomitare. Centro l’uscita del bar. Mi ritrovo
nel vicolo freddo e umido, la nebbia sembra imprigionare il luogo
e nascondere la fogna che lo circonda. Una volta, in questo quartiere
c’èra più rispetto per gli ubriachi. Cosa
sto dicendo? Io non sono ubriaco, un po’ brillo, forse,
ma non ubriaco. Per sorreggermi mi aggrappo all’unico lampione
che illumina il vicolo, spaventando un grosso gatto spelacchiato
che ci si stava strusciando contro. A terra c’è di
tutto: cartacce di giornale, mozziconi di sigarette, gomma da
masticare masticata e schiacciata sotto le scarpe, pezzi di vetro
di bottiglia, merda di cane, e chi più ne ha, più
ne metta. Il quartiere Volta fa schifo, e non so quante rapine
abbia dovuto subire Cecco negli ultimi mesi. Colpa del governo,
della provincia, del comune, della gente di merda che lo abita,
gente come me. Non bastavano gli stronzi autoctoni, dovevano arrivare
anche quelli d’importazione. E poi quegli idioti che litigano
per il loro dio. Dio, Allah (non sono la stessa cosa?), o come
lo chiamano. Litigare per una cosa che non esiste. Idioti! Il
paradiso non esiste, mentre l’inferno, quello esiste di
sicuro, basta guardarsi intorno. Mi stacco dal lampione, cammino
barcollando, mi appoggio a una saracinesca ormai arrugginita.
Qualche anno fa, dietro questa lamiera arrugginita, c’era
una macelleria, c’era anche una panetteria in questo vicolo;
sia una che l’altra, hanno chiuso con l’arrivo degli
ipermegasupermercati dai grandi sconti, gioia del consumatore
medio, e non solo. Dio! Pensieri inutili mi affollano la mente
in una giravolta insostenibile. Decido di provare a tornare a
casa. Dovrei arrivarci senza difficoltà, non abito lontano,
spero di ricordare il numero. L’ultima volta ho sbagliato
portone e pensando di aver sbagliato a portare le chiavi, sono
rimasto a dormire davanti alla porta d’ingresso di chissà
chi, credendo che fosse la porta di casa mia. Qui le case si assomigliano
tutte, soprattutto quando hai qualche litro di alcol nel sangue.
Avanzo nel vicolo semibuio, mi sembra di sentire delle voci, un
urlo. Intravedo tre persone intorno a un’altra figura umana,
una donna. La voce femminile sembra rimbombarmi nelle orecchie.
“Aiuto, qualcuno mi aiuti!” Sento delle voci, delle
risate. “Andiamo! In discoteca non facevi tanto la difficile.”
Un tentativo di stupro? Forse! Devo intervenire, sono un poliziotto…
no! Ero un poliziotto. “Fermi!” urlo con il poco fiato
che ho in corpo. Mi avvicino goffamente, inciampo in una delle
tante bottiglie lasciate sul terreno da qualche imbecille, e cado
con il viso nella polvere della strada. Sento le risate, dei passi
che si avvicinano. Cerco di rialzarmi. Alzo il viso da terra e
intravedo delle ombre, sento odore di profumo da cento euro, odore
di gel per capelli. Non sono gente del quartiere. Mi sono intorno.
Ora, il loro giocattolo da spaventare sono io. Uno di loro si
china su di me, posso così vedere il suo volto chiaramente,
illuminato dalla luce del lampione. E’ un ragazzo sui diciannove,
venti anni al massimo, forse anche gli altri lo sono. Sorride
maligno. “Guardate! Questo tipo è ubriaco fradicio,
puzza come una distilleria” dice, rivolgendosi agli altri.
Grasse risate gli fanno coro. Merda! Mi prendono anche per il
culo. Cerco un barlume di lucidità nei miei pensieri confusi,
non riesco a trovarla, allora serro i pugni e scatto. Con un pugno
colpisco sul naso il ragazzo. Sento le ossa del suo naso frantumarsi,
o sono le mie nocche? Da giovane ho fatto del pugilato, sono un
ex pugile. Colpisco a destra e a sinistra, alla ceca, preso da
una furia insensata. La testa mi gira come un pallone. I miei
pugni vanno a vuoto e frustano l’aria. Non capisco più
niente. Sento la ragazza urlare. Riesco a colpire ancora qualcuno.
Sento le urla dei giovani: “Via! Cazzo, via!” Il quartiere
mi gira intorno e il vomito parte alla carica risalendo la gola.
Cado a terra, sperando che il vicolo smetta di girare. Vado al
suolo incosciente, sento l’odore dell’asfalto, ho
un sapore acido e schifoso in bocca, e rischio di annegare nel
mio stesso vomito. ... Odore di disinfettante, di alcol, ma non
quello che piace a me. Sono sdraiato in un letto di ospedale.
Quale? Che importa. Probabilmente sono stato soccorso, forse quella
ragazza, chissà dov’è ora. La sbornia mi è
passata, ma ho lo stomaco che brontola e fa a pugni con l’intestino.
La testa sembra esplodere da un momento all’altro: mi sento
uno schifo. Mi alzo dal letto, voglio andarmene. Solo quando sono
in piedi mi accorgo di non indossare il mio vestito, ma solo un
camicione bianco di tela ruvida.Un’infermiera mi vede alzato
e corre a chiamare un medico. Chiedo a un’altra infermiera
di riavere i miei vestiti. Lei me li porge con riluttanza. Non
posso che darle ragione: la mia maglietta non più bianca,
il mio maglione infeltrito di lana, i miei jeans macchiati, la
mia giacca marrone sgualcita, le mie scarpe da tennis consumate,
puzzano come una cloaca, ma al momento non ho altri indumenti.
Insieme a un dottore dal camice bianco e pulito, arriva anche
un viso conosciuto che mi saluta:. “Salve Ispettore Roda”
E’ l’ispettore Magri, colui che ha preso il mio posto
al commissariato di zona. Un giovane brillante, pignolo, ma brillante,
per quello che mi ricordo di lui. Mi chiama ispettore, come se
avessi ancora quel titolo, come se me lo meritassi. Il dottore
mi prova la pressione con lo strumento che ha in mano, mi controlla
gli occhi con una specie di mini torcia che emana una piccola
luce fastidiosa. Mi dice con gentilezza che oggi non morirò,
ma che probabilmente, se continuo a bere porcherie, non durerò
molto. Sai che scoperta! E poi, mica voglio vivere in eterno.
Dice che per quanto lo riguarda me ne posso anche andare e si
allontana. Guardo l’ispettore capo Magri, lui ci tiene al
titolo, a me non è mai interessato molto. “Guarda
chi si vede!” gli dico sfoggiando il mio più bel
sorriso di circostanza. Lui non è in vena di sorrisi, la
sua voce è dura e decisa: “La mia non è una
visita di cortesia. Cosa ci facevi nel vicolo, ubriaco e vicino
a una ragazzina morta.” Le sue parole mi colpiscono come
un macigno nello stomaco. Mi spiattella davanti alla faccia una
foto. E’ della ragazza che ho cercato di difendere, credo,
non ho potuto vederla chiaramente. La foto è quella del
suo viso senza vita, credo sia stata fatta all’obitorio.
Magri mi informa che si chiama…si chiamava Caterina. Aveva
diciassette anni ed è morta nel vicolo, con il cranio infilzato
in uno spuntone che usciva dai vecchi muri. “No!No! Non
è possibile, quei bastardi l’hanno uccisa!”
urlo, sentendomi colpevole. Quei balordi l’avevano uccisa
e io ero troppo ubriaco per poterlo impedire.“Chi ha chiamato
la polizia dice di aver visto delle persone scappare dal vicolo
e forse questo ti scagiona dall’accusa di omicidio, ma devi
venire al distretto, voglio sapere da te come è andata,
sempre se ti ricordi qualcosa, visto lo stato in cui eri”
continua l’ispettore. Mi siedo sul letto, mi sento come
se mi fosse passato addosso un treno. Ho ancora davanti agli occhi
l’immagine di quel ragazzo che mi guardava, ora più
che mai. Usciamo dall’ospedale, sono arrabbiato e deluso.
Un orologio appeso appena fuori la struttura, mi dice che sono
le 11,30. Le autoambulanze della Croce Rossa sfrecciano nella
strada nei due sensi, ininterrottamente. Le loro sirene sembrano
cannonate. Ho mal di testa, ma non ho un aspirina. Idiota che
sono! Avrei dovuto farmela dare dal medico. Il rombo del traffico
non migliora le cose. La nebbia è scomparsa, lasciando
il posto a una pioggia, grigia e miserabile, ed io sono come lei,
grigio e miserabile. Lo stomaco riprende a ballare al ritmo instabile
della pioggia. Che schifo di giornata! Una “pantera”
si ferma davanti a noi, magri mi invita a salire dietro. Quante
volte sono salito su queste auto, solo che, una volta, mi sedevo
davanti. Percorriamo la strada in silenzio e arriviamo al distretto
di via Magni, il mio ex distretto. Entriamo nel cortile, parcheggiando
tra altre macchine della polizia. Magri mi accompagna all’interno
della struttura, attraverso un lungo corridoio. Conosco il luogo
e la procedura. Incontro molti giovani con la divisa blu, altri
meno giovani, ma non riconosco nessuno. Entriamo in una stanza,
dove un giovane agente, dietro a un computer, mi chiede le generalità:
nome, cognome ecc. ecc. Finita la prassi, vengo accompagnato in
una stanzetta senza finestre, con una branda e una luce fioca.
Passo tutta la giornata a spiegare, a raccontare ogni cosa e Magri
ascolta con pazienza. Non gli sono simpatico per ciò che
sono ora, ma non per quello che ero ieri. Quando ho finito di
raccontare mi dice: “Dobbiamo trattenerti, è la procedura.”
Passo la notte al distretto, una notte di incubo, tra lenzuola
che sembrano carta vetrata. La mattina dopo, l’emicrania
sembra darmi tregua, ed è l’ispettore a svegliarmi
e a darmi il via libera: “Puoi andare! Comunque tieniti
a disposizione.” Sì! Conosco la tiritera. Quante
volte ho ripetuto quella frase. Secoli fa. Esco dal distretto.
Scendo delle scale, e mi ritrovo al di sotto del manto stradale.
Prendo il metrò. C’è un po’ troppa gente
a quest’ora. Tutti cercano di starmi lontano, ma il vagone
è troppo stipato e non possono evitare di starmi addosso.
Qualcuno impreca e si chiede, ad alta, voce il motivo per cui
ci debba essere della gente che dimentica di lavarsi. Ogni riferimento
al sottoscritto è del tutto casuale, credo. Arrivo nel
quartiere Volta e mi dirigo a casa.
(continua nel prossimo numero)
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