Kakà
un mito ...
Luglio 2009

Ospitiamo un intervento che sicuramente desterà riflessioni
e commenti, con l’augurio che si possa avviare un dibattito
costruttivo nel rispetto delle parti.
Parliamo di Kakà, quel calciatore che ha fatto della fede
un suo progetto di vita <<I belong to Jesus>> il suo
motto, che non ha bisogno di nessuna interpretazione.
Il seguente articolo è tratto dal sito www.evangelici.net
«Non credo che accettino di vendere Kakà perché
devono fare cassa, ma perché quando un giocatore chiede
per due o tre volte di andarsene, alla quarta non lo puoi tenere».
Lo ha detto alla Stampa Demetrio Albertini, “senatore”
del Milan con un’esperienza internazionale alle spalle.
Abbiamo parlato più volte del fuoriclasse milanista per
la sua fede e la sua testimonianza cristiana, che l’ambiente
calcistico, pur sorridendo a mezza bocca, ha dovuto rispettare
in ossequio alla qualità tecnica del personaggio. Da sempre
il talento è una credenziale che giustifica ciò
che suona anomalo o che non si sopporta: la fede di Kakà,
il carattere difficile di Mourinho, l’atteggiamento irriverente
di Gascogne.
Però la vicenda Kakà è ormai una telenovela
dal finale annunciato. Se è questione economica, non si
può che concludere con la cessione: il Milan potrà
resistere alla prima offerta esorbitante, potrà declinare
la seconda, ma prima o poi dovrà cedere.
Resta qualche dubbio sul problema di fondo che spinge il calciatore
ad accettare di andarsene altrove. Difficile credere che riguardi
i soldi: quando uno guadagna decine di milioni di euro all’anno
può permettersi di dire no perfino a offerte da capogiro,
e può farci una bella figura. È successo allo stesso
Kakà l’estate scorsa, quando a offrire una cifra
da capogiro è stato il presidente (musulmano) del Manchester
City: dire di no è stato (oppure è sembrato?) un
gesto di coerenza con il proprio credo.
Se il problema non è di natura economica, potrebbe riguardare
l’ambiente: ma il calciatore vive a Milano dal 2003, e a
quanto pare regge bene la metropoli, né pare abbia avuto
il bisogno di trovare una villa fuori dal caos urbano, come altri
suoi colleghi.
Che sia un problema di maglia? Anche in questo caso, la tesi è
difficile da sostenere: fino a poche settimane fa il fuoriclasse
ringraziava i tifosi e prometteva fedeltà, difficile che
sia cambiato qualcosa.
Nemmeno il fattore-nostalgia ha qualche chance: ha con sé
la famiglia, sua moglie e di recente perfino la sua chiesa brasiliana
– non bastassero le decine di comunità evangeliche
già presenti a Milano – ha aperto una filiale in
centro città.
Forse il problema non esiste, e Kakà sente solo il bisogno
di cambiare. Non sappiamo se lo farà: in caso avvenga,
però, è probabile che la Milano non calcistica non
ne risenta.
Sarà che si tratta di un personaggio globale e –
di conseguenza – poco legato al locale, ma in questi sei
anni in rossonero, fuori dal campo, la sua presenza è rimasta
eterea.Nonostante le sue forti convinzioni religiose, non si sono
registrate da parte sua apparizioni a iniziative di carattere
evangelico: mentre i suoi colleghi Atleti di Cristo girano l’Italia,
partecipano a trasmissioni radiofoniche e televisive, visitano
teatri e chiese, sponsorizzano missioni e iniziative di evangelizzazione,
scrivono libri e incontrano la gente, lui è rimasto sempre
in disparte.
Un altro stile, forse; sapere della sua fede ha incoraggiato molti,
ma la Milano evangelica – quei credenti che sono stati fieri
di poterlo annoverare come un “fratello”, e che dalla
sua fede magari hanno tratto spunto per parlare di Dio ad amici
e colleghi – lo avrebbe voluto abbracciare, ringraziare,
salutare, una volta o l’altra. Con la scusa che l’avrebbero
voluto tutti (e come dargli torto?), non lo ha visto nessuno.
Una presenza incoraggiante, ma del tutto virtuale.
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