Marco
Plebani: il miracolo dell’amore
Novembre 2008
di Enrico Viganò
Il suo sorriso, la sua gioia di vivere contagiano.
Quei suoi occhi azzurri sprigionano una vitalità e umanità
che scuotano chiunque lo incontri. Sono gli occhi di chi ha sofferto
molto, di chi è passato dal coma profondo alla vita, di
chi è rinato una seconda volta. Marco Plebani, 55 anni,
non dimenticherà mai quei cinque anni trascorsi su un letto
di terapia intensiva in stato comatoso, ritenuto dai medici irreversibile.
E neppure dimenticherà quel 28 giugno del 1978, che ha
cambiato definitivamente la sua vita.
Mentre si reca in motoretta dall’ospedale di Erba - dove
come studente in medicina svolge attività di tirocinio
- alla piscina di Merone - dove è istruttore di nuoto -
una Seicento non rispetta lo stop e travolge Marco. Cadendo, batte
la testa contro il cordolo del marciapiede e rimane immobile.
Come morto. Inizia il suo calvario. All’ospedale di Lecco
rimane tre anni in coma profondo. Per i medici è irrecuperabile.
I suoi famigliari non ci credono: Marco in loro presenza mostra
quei segni impercettibili del movimento degli occhi e di lacrimazione
che solo un papà e una mamma possono cogliere. “No
– dicono i medici – sono riflessi incondizionati,
non illudetevi”. Papà e mamma invece “si illudono”
e chiedono per Marco il ricovero al CTO di Milano. Qui rimane
due anni. Miglioramenti pochi, ma la speranza dei famigliari è
incrollabile. Chiedono il consulto di un luminare americano, di
origine italiana, che consiglia di sospendere l’ospedalizzazione
e assistere Marco in casa propria. La casa viene ristrutturata
da cima a fondo. A casa Marco inizia il risveglio, graduale e
costante, fino a riprendere conoscenza e a muovere gli occhi,
la testa, il braccio sinistro e alcune dita. Purtroppo nei cinque
anni di coma non era mai stato sottoposto ad attività di
fisioterapia e gli arti si erano atrofizzati. Subisce diversi
interventi chirurgici e sanitari per aiutarlo a riprendere alcune
funzionalità, come il deglutire, ma la terapia più
efficace risulta essere l’assistenza continua, costante
e premurosa di mamma e papà, dei famigliari e degli amici.
Quando muore la mamma, si ripresenta la necessità del ricovero
in una struttura assistenziale per lungodegenti. In Erba non esistono.
Invece in Erba esistono gli affetti più cari a Marco: il
papà, la sorella, gli amici. Allontanarlo da Erba sarebbe
stato controproducente. Viene chiesto allora alla casa di riposo
Ca’ Prina di ospitarlo. Ma Marco necessita di un’assistenza
particolare e continua. Ancora una volta il cuore grande di papà
prende tutti in contropiede: vende la casa e chiede di essere
ricoverato anch’egli per meglio assistere il figlio.
Alla morte di papà, per la sorella Silvana si ripropone
ancora il problema dell’assistenza ininterrotta del fratello:
si rivolge in Regione dove trova aiuto e sostegno perché
Marco possa restare nella casa di riposo.
E così da 19 anni, la camera al primo piano di Ca’
Prina è la sua casa. Sui ripiani dei mobili sono esposti
i suoi hobby: i modellini delle Ferrari di ogni epoca, delle navi
a vela, e quelle che lui chiama “le schifezze”, cioè
i souvenir in vetro “palla di neve”, che gli amici
gli hanno portato da ogni parte del mondo. Su una carrozzina appositamente
realizzata per lui e accompagnato dai suoi “angeli custodi”
come li chiama – gli amici Giorgio, Graziano, Lia, Antonella
- va al mercato, al teatro, al parco. Gioca al computer e invia
email in ogni parte d’Italia. “Ha conoscenti ovunque
– ci racconta la sorella - Nei suoi viaggi a Lourdes con
l’Unitalsi ha incontrato tante persone e con loro “colloquia”
via email”. Due suoi amici di Sondrio hanno comprato appositamente
un camper e lo portano al mare, in montagna. E non vuole che vada
anch’io assieme. Con loro si sente libero…”.
Marco ride, e il suo riso è contagioso tra i presenti.
“Ciò che mi sorprende – osserva la sorella
– è che in tutti questi anni di dolore, non si è
mai lamentato del suo stato. Non si è mai chiesto che fine
farò. Ha una fiducia incrollabile, che gli deriva dalla
fede. Marco crede e se trova qualcuno che lo accompagna , si reca
in chiesa. Ha visto morire la mamma, il papà e non si è
mai scoraggiato, ha superato tutto. Anzi è lui che fa coraggio
a noi; quando noi, io e i suoi amici, abbiamo un problema personale,
lo diciamo a Marco e lui ci suggerisce la soluzione. Marco dona
sempre tutto se stesso e non pretende mai nulla per sé”.
Il linguaggio di Marco è gestuale e si parla con gli occhi
e con il movimento delle tre dita della mano sinistra, un linguaggio
codificato che gli amici hanno imparato a conoscere. E poi con
il computer: una speciale tastiera collegata al mouse gli permette
di scrivere e di mandare email. Tempo fa aveva anche iniziato
a scrivere la sua biografia, rimasta poi incompiuta: forse perché
raccontare anni di sofferenza è come rinnovare ulteriore
sofferenza. Provo a chiedergli cosa ricordi quegli anni…
“Ricordo le voci dei medici – risponde – Bisognerebbe
dire ai medici di non parlare mai in presenza dei pazienti in
coma, perché sentono tutto”. E le lacrime solcano
il suo viso. Lui era uno studente di medicina e comprendeva molto
bene il linguaggio medico. Non insisto con altre domande. “E’
sempre così – interviene la sorella – quando
si parla di quegli anni, si commuove. Più volte mi ha raccontato
che in quel periodo sentiva tutto, sentiva quando i medici sentenziavano
che per lui non vi era più nulla da fare. Ci vedeva, ma
non poteva comunicarci nulla. Si ricorda il luccichio della mia
collana. Ricorda, ed è vero, che una nostra zia maestra
gli mostrava dei cartoncini scolastici per l’apprendimento
del linguaggio. Su uno c’era la neve. E lui quel giorno
si è girato verso la finestra: fuori stava nevicando. E
questo era il suo dolore. Noi percepivamo lenti movimenti degli
occhi. E per noi era il suo modo di comunicare. Per i medici no”.
La storia di Marco è il caso più eclatante di come
l’amore di una famiglia faccia miracoli, impensati e insperati
per la scienza. “Marco per questo è contrario all’eutanasia
ed è a favore della vita – conclude Silvana –
Anche nella vicenda della ragazza americana Terry Schiavo è
stato contrario che le fosse stata tolta la spina”. E nel
caso di Eluana di Lecco, invece? Interviene Marco e dice con il
suo linguaggio gestuale: “In questo caso do ragione al papà”.
Enrico Viganò
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