SCUOLA
IL CORAGGIO DI CAMBIARE
Novembre 2008

Sulla riforma Gelmini forse sono state spese
troppe parole, e, invece di affrontare un confronto costruttivo,
prendendo spunto da dati oggettivi, tutto è stato “buttato”
in politica per denigrare il ministro, il governo e dare una chance
ad un’opposizione in cerca d’idee, d’identità
e di un nuovo leader, meno ciarliero e più concreto.
La materia è complessa, ma è evidente a tutti che
nel mondo della scuola c’è qualcosa che non funziona
a dovere. Infatti, con politiche azzardate, con la grave responsabilità
dei sindacati e dei governi, soprattutto d’ispirazione progressista,
è prevalsa una regola discutibile: “lavorare meno
per lavorare tutti”, che, sostenuta dai sindacati (irresponsabili?),
ha contribuito a mettere in ginocchio le finanze dello Stato.
La politica dell’assunzione facile e compiacente ha portato
ad un disastro, sotto il profilo economico, ma anche sotto quello
della qualità dell’insegnamento e della definizione
delle regole, fondamento per il funzionamento di ogni attività.
In questa situazione, che sta alimentando la strumentale protesta
degli studenti, pronti ad imitare le esperienze sessantottine,
in mancanza però degli stessi slanci ideali e culturali,
si sta cercando di crocefiggere la Gelmini, una bella e giovane
donna (una prerogativa dell’attuale governo), pratica, concreta
e poco incline alle facezie, determinata a portar a termine una
riforma necessaria, in considerazione delle nuove problematiche
che investono la scuola che deve diminuire gli sprechi adeguando
l’insegnamento alle effettive esigenze di una società
sempre più multietnica.
Le ragioni della riforma, dettate dalla volontà di attuare
il riordino della materia e di una spesa sicuramente spropositata
rispetto alla qualità dell’insegnamento, sono molteplici:
la necessità di eliminare gli sprechi in genere, e, considerata
la strumentalizzazione politica nell’ambito universitario,
di cui il ministro non si è occupato, la lotta alle baronie,
l’eliminazione dei corsi inutili, dove le iscrizioni si
contano sulle dita di una mano o poco più, l’introduzione
della meritocrazia, la necessità di contenere il costo
dei libri, non sostituendoli di anno in anno, (l’art. 5
del decreto prevede il mantenimento degli stessi libri di testo
per almeno cinque anni), la razionalizzazione delle risorse con
la nuova figura del maestro prevalente, così come avviene
nella maggioranza dei Paesi europei, la valorizzazione del tempo
pieno che, al contrario da quanto urlato nelle piazze, non sarà
diminuito, ma al contrario addirittura esteso.
Gli studenti, a parte i pochi veramente interessati al problema
delle riforme, partecipano in maggioranza per inerzia, vivendo
un’esperienza per loro nuova, che potrebbe avvicinarli a
problematiche reali, e alla politica, e questo è sicuramente
un dato positivo. Stupisce al contrario l’atteggiamento
di un’opposizione pronta a gettarsi sull’osso pur
di recuperare credibilità, divisa, com’è,
sulla linea politica imposta da Veltroni, fondata troppo spesso
sulle parole e non sui fatti, e sul facile e scontato populismo.
Ma veniamo al concreto: innanzi tutto il provvedimento legislativo
intende riformare la scuola elementare e in genere quella dell’obbligo,
per eliminare privilegi, persone che non lavorano, scansafatiche,
e quanti sono stati assunti per scelte clientelari, e pertanto
con la crisi economia e finanziaria in atto chi non comprende
lo stato d’emergenza e la necessità di far quadrare
i conti, si mette fuori gioco, e non meriterebbe alcuna considerazione.
Detto questo, passata la buriana, se si apportassero alcuni miglioramenti
alla riforma, accettando suggerimenti, si potrebbe giungere ad
un testo equilibrato e condiviso, espressione di un’ampia
collegialità, senza coinvolgere, strumentalizzandola, la
massa degli studenti, impedendo, come sta accadendo alla stragrande
maggioranza degli stessi, di seguire i corsi e di presentarsi
agli esami.
Un dato sembrerebbe essere certo: nella scuola il numero degli
insegnanti è spropositato rispetto alle necessità,
e pertanto va sfoltito, possibilmente non licenziando, ma utilizzando
il personale in altre attività, o con gli strumenti tecnici
già utilizzati in altri casi.
Mentre la riforma, in effetti, da priorità ai problemi
da affrontare nell’ambito della scuola elementare, cercando
di risolvere il problema dell’integrazione dei bambini stranieri,
che, per apprendere la lingua italiana, dovrebbero affrontare
un primo anno di insegnamento separato, per poi partecipare con
maggior profitto alle lezioni ordinarie, il baricentro dello scontro
politico si è incentrato sull’insegnamento universitario.
L’università italiana è malata, sottoposta
com’è agli sprechi e alle baronie, offrendo una preparazione
spesso inadeguata alle necessità e alle esigenze della
vita reale e del mondo del lavoro, ancora troppo condizionata
dalla cultura del Sessantotto.
Per migliorare la situazione bisognerebbe utilizzare al meglio
le risorse, impiegandole razionalmente, evitando gli sprechi,
magari tagliando i corsi di laurea ai quali partecipano poche
decine di iscritti, e gli studenti dovrebbero stare attenti per
non diventare strumento di chi intende mantenere un regime di
privilegi, che toglie le necessarie risorse per la ricerca.
Una riforma di siffatta importanza deve necessariamente partire
dal basso, iniziando dalle problematiche della scuola elementare
e dell’obbligo, per poi completarsi con il riordino dei
corsi di laurea.
In gioco non ci sono solo le risorse, ma anche e soprattutto la
formazione della futura classe dirigente, la vera ed unica speranza
per un futuro migliore.
Dario Meschi
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