
di
Claudio Vigolo (Speaker Life Gate Radio 105.1 FM)
Ottobre 2005
Musica o moda?
Club culture, elettronica,
chill out e derivati
Si chiama Club Culture, è quella
scena musicale fatta dai cosiddetti dj set, ovvero serate con
disc jockey che mettono musica, spesso in locali alla moda, ma
anche in centri sociali. A volte si usano i tradizionali dischi
in vinile, più spesso i cd ma capita anche di vedere dei
computer in cui sono archiviati i brani musicali collegati direttamente
al mixer. A volte c'è l'intervento dal vivo di musicisti
su brani o basi. Spesso le esibizioni sono accompagnate dalla
proiezione di immagini, i cosiddetti vis uals.
La lingua ufficiale di questi eventi è l'inglese, o meglio
l'italiano infarcito di termini inglesi, anche se a volte un tocco
di esotico viene dato da espressioni in francese o spagnolo. L'immaginario
di riferimento è modernista e tecnologico, il luogo di
culto è Londra. Ci si muove a cavallo tra le discoteche
e l'ambiente della moda o della televisione. Insomma, la colonna
sonora del nostro tempo. O no?
Il dubbio è: ma è veramente questo il genere di
musica e di immaginario in cui si rispecchia la gente? Quanto
seguito di veri appassionati hanno questi generi e quanto il fenomeno
è gonfiato dalla moda? Dj e produttori della scena elettronica
si definiscono oggi musicisti; quando fanno le serate in discoteca
o nei club "suonano", complice anche la diffusione di
software a basso costo per fare musica. Ma gli altri musicisti,
quelli "veri" (batteristi, bassisti, chitarristi, ecc.)
sono in diversi casi perplessi e non vedono di buon grado quest'usurpazione
di ruolo.
Franz Di Cioccio, batterista della PFM, la più importante
formazione italiana di progressive (il filone rock che ha portato
il virtuosismo all'apice) dichiara: "per i giovani la musica
è questa perché questo è quello che viene
proposto dai mass media. Bisognerebbe avere un'offerta più
ampia e forse le scelte sarebbero diverse".
Della stessa opinione sembra essere Roberto Monesi, giornalista
e docente di educazione musicale: "la politica dell'Industria
Cultural/musicale è più che mai orientata al business...
materiale di facile e veloce consumo è ciò che viene
promosso. I mezzi di comunicazione di massa sono fortemente complici
di questo fenomeno".
Interessante sentire anche l'opinione di un pubblicitario. Maurizio
Sala, direttore creativo dell'agenzia Armando Testa, spiega: "in
generale la musica in uno spot è quella che dà il
tono emotivo alla storia. Nello specifico di questi generi musicali
possiamo dire che l'utilizzo di musica 'di tendenza' si fa per
marchi che vogliono apparire trendy, che non sono solo prodotti
giovanili ma anche prodotti o marchi che vogliono affermare una
sorta di loro 'contemporaneità continua'.
"Semplificando un po' la cosa più ovvia è accostare
un genere musicale di moda a un prodotto che vuole essere di moda,
trendy. Per quanto riguarda la musica elettronica, l'abbinamento
immediato è quello a prodotti che vogliono evidenziare
il proprio contenuto tecnologico e moderno". Di Cioccio,
da musicista, identifica inoltre "un limite alla fonte della
musica, quando negli studi di registrazione vengono limitate o
'normalizzate' le dinamiche musicali di un brano. In questo modo,
proprio per motivi tecnici, molto dei dischi rock attualmente
prodotti (specialmente in Italia) nascono già con una configurazione
limitante. Tuttavia, girando con la PFM, vedo che quelli che suonano
ancora dal vivo senza paura e senza rete sono ammirati da un certo
tipo di pubblico". "Però in realtà il
pubblico - prosegue Di Cioccio - quando è a casa o con
gli amici si passa dei dischi straordinari. Il grande successo
dell'I Pod (il lettore portatile di brani musicali in formato
digitale, ndr) segna proprio l'importanza di crearsi una discografia
personale slegata dalle proposte correnti". "Mi sembra
che questo fenomeno della club culture - conclude Di Cioccio -
sia da ascrivere al concetto di consumo veloce di qualsiasi cosa.
Non c'è una vera onda artistica, c'è solo del consenso
pilotato".
Tra i fautori dell'altra campana alcuni rifiutano immediatamente
l'etichetta club culture, in quanto questo fenomeno si sarebbe
esaurito da tempo. Altri invece non dicono che la club culture
è morta ma che in Italia, se mai esista, non ha lo stesso
significato che a Londra o Berlino dove i giovani seguono gli
eventi e i locali per ascoltare un particolare tipo di musica
e perché fan di un dj. E diversi fra questi ultimi ammettono
che una parte del loro pubblico più che alla musica è
interessata ai cocktail e a fare conoscenze.
Qualcuno poi arriva a paragonare la "summer of love"
del 1967 (quella degli hippie americani e del festival di Monterey)
a quella del 1987, nella quale Danny Rampling lancia il genere
acid-house in bui club inglesi nei quali si fa uso di droghe e
sesso promiscuo. La house music sarebbe quindi un modo di aggregarsi
e scaricare le tensioni.
Chi ha ragione? E chi lo sa… ognuno affini le orecchie
e vada dove lo porta il cuore!
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