“Me
regordi ...”
La quotidianità della mia fanciullezza
Ottobre 2005
di Antonio Isacco
Erano i tempi, molto duri, subito a ridosso
della fine della seconda guerra mondiale. Gli anni nei quali frequentavo
le prime tre classi delle scuole elementari a Rogeno e, in seguito,
le altre due classi a Casletto. La mia vita, come quasi quella
di tutti, era legata allo scorrere delle stagioni per cui quando
la mattina, di buon'ora prima di recarsi al lavoro, mio zio Ferdinando,
lo vedevo portare i polli e le galline al campo cintato, era palese
che la primavera aveva iniziato il suo corso. Utilizzava la careta
di gain e cioè una specie di gabbia dotata di ruota anteriore
e di due manici posteriori, come una comune carriola, fatta tutta
con asticelle di legno e munita di un piccolo sportello sulla
parte superiore, per l'entrata e l'uscita dei bipedi. Per tutta
la giornata gli animali vivevano liberi nel campo, e la sera,
sempre mio zio, si sobbarcava una fatica non indifferente per
riuscire a far rientrare tutti i polli e le galline da quel piccolo
sportello, dove la mattina ne erano usciti e ciò per poterli
portare a casa: questo rituale durava fino all'autunno inoltrato.
In quegli anni ai piedi, tranne d'estate dove erano doverosamente
nudi, avevo gli zoccoli ed ero tra i fortunati perché me
li potevo permettere con i cinturini di pelle che cingevano le
caviglie. Erano l'anticamera delle più evolute scarpe che,
se qualcuno le possedeva, erano esclusivamente riservate alle
domeniche e alle feste di precetto. Le sere del venerdì
Santo e del sabato Santo, quando non si potevano suonare le campane
perché era morto Gesù, io, con una frotta di ragazzini
e anche qualcuno più maturo, correvamo per le vie del paese
con i campanelli squillanti e il più grandicello con il
trich e trach, un arnese con due tavolette di legno che scuotendolo
faceva un baccano d'inferno, annunciavamo il primo… il secondo…
e il terzo che dava inizio, in chiesa, alle liturgie della Via
Crucis. Questo scampanellio culminava la mattina della domenica
a Messa prima quando Gesù risuscitava.
Le sere di maggio erano dedicate alla recita del rosario, prima
nella nostra chiesa e poi, immancabilmente, a casa dove solitamente
si aggregavano anche persone del vicinato e con la consueta cantilena
si sgranocchiava l'ennesimo rosario. C'erano le processioni del
Corpus Domini e dell'Ascensione dove si allestivano, in vari punti
del paese, gli altarini e il buon don Giovanni si intratteneva
per eseguire il dovuto cerimoniale, e lungo le strade, interessate
dalla processione, si spargevano petali di rose fresche e profumate.
Era tutto molto coreografico anche perché esistevano le
Figlie di Maria con la loro divisa simile all'abito della Madonna
e la Confraternita degli uomini anch'essi con i loro variopinti
costumi che andavano dal bianco del camice al rosso della mantellina
e del cordone alla vita. A San Marco, cioè il 25 aprile,
per tutto il paese venivano stese sopra le vie, dal palazina ai
faustitt, le sandaline fatte, molto pazientemente dalle donne,
con le cannette del grano opportunamente tagliate a piccoli pezzi
ed infilate a mo' di ghirlande impreziosite inoltre con fiori
di carta dei più svariati colori e fogge. I portoni d'ingresso
ai vari cortili, venivano rivestiti con l'edera o canne di bambù
o rami di alberi, precoci nel rinverdire, con tenere foglioline
e, tutto ciò, decorato con imitazioni di glicini in fiore
oppure di altre composizioni ma sempre floreali. Casletto era
un incanto! Un vero stupore! Un paese da far invidia anche a Pinocchio
che pure si era recato in quello fantasioso dei balocchi. Si
respirava un'aria di grande euforia e di enorme solennità
e penso che anche i più scettici venivano coinvolti, se
non di facciata, sicuramente sotto il profilo emotivo. Scoppiava
l'estate e oltre al caldo portava con sé tanta felicità
anche perché iniziavano le vacanze scolastiche. Il lago
con le sue acque trasparentissime, le spiagge di sabbia finissima,
i boschi, accuditi con le specifiche competenze dei contadini,
erano di uno splendore unico, il paesaggio riempiva di gioia gli
occhi anche dei più esigenti, ed inoltre, l'estate, portava
soprattutto molto lavoro. I campi, di biondo grano frammisto al
rosso dei papaveri e alla delicata tonalità dei fiordalisi,
splendevano al sole; i prati, tagliati tutti a mano con la ranza,
profumavano di fieno oltre a popolarsi di tantissime lucciole
svolazzanti qua e là tanto che si inoltravano anche nelle
immediate vicinanze delle case a formare qualcosa simile ad un
cielo stellato a misura d'uomo.
La mietitura con la trebbiatrice (machina de batt) era da me vissuta
come un evento straordinario: iniziava il suo lavoro da la ca'
del su, poi dalla curt di isacc a volt, da quella di sanfermi,
quindi l'era di pustitt ed infine la curt del peslagh. Per me,
bambino, era assolutamente proibito avvicinarsi a tutti i vari
macchinari per la trebbiatura, perciò stavo seduto a debita
distanza. Osservavo con grande attenzione tutte le fasi necessarie
che culminavano con l'insaccamento del grano, da una testata di
tutta l'attrezzatura, e nel formarsi delle balle di paglia dalla
parte opposta.
Quel gran polverone e lo sferragliare di
insoliti rumori meccanici mi giungevano stranamente graditi forse
perché era l'unica occasione di osservare e udire qualcosa
in movimento che non fossero le ruote dei carri o il calpestio
degli zoccoli degli animali da tiro. L'autunno iniziava con la
vendemmia e da quell'uva si ricavava ul nustranel. Si iniziava
con il raccogliere l'uva e sistemarla in cassette, quasi sempre
di fortuna, o nei sempre insufficienti tini e quindi trasportare
il tutto a casa. Si procedeva con la pigiatura, a piedi nudi e
ben lavati, e , dopo un po' di tempo, dalla botte si stillava
un primo mosto che era il vino dolce; si portavano i tegash al
torchio che era di proprietà di Riccardo di camai, e lì
venivano opportunamente spremuti ottenendo il vero vino che si
versava nelle predisposte damigiane da sistemare nella cantina,
per chi l'aveva. Mio padre l'aveva e perciò era uno dei
fortunati anche se per la verità, detta cantina, era ed
è tuttora alquanto umida e quindi ul nustranel se lo gustava
soltanto lui perché a tutti in famiglia non piaceva assolutamente:
el piava. Le castagne con le noci erano l'altra frutta di stagione.
Più o meno le castagne riuscivo a raccoglierne a sufficienza
sia per fare le caldarroste, sul piano della stufa a legna, sia
per farle lessate da mangiare nelle lunghe sere invernali. Per
le noci le cose si complicavano un tantino perché avevamo
un albero di noce ma, a detta di mio padre, era giovane e di noci
ne faceva pochine: pazienza, le facevamo bastare. Al granoturco
si riservava un'accoglienza almeno pari al grano. Lo si catava
e caricava sul carro che poi veniva scaricato sotto il portico
e alla sera ci si sedeva in circolo a sfuià, cioè
a liberare la pannocchia dalle varie foglie che la coprivano cioè
ul spulot. Anche questa era un'occasione per stare tutti insieme
e tra una barzelletta, un immancabile rosario e qualche ricordo
di guerra sia di mio padre come di mio fratello, si lavorava in
un clima che definirei "umano". La prospettiva di quel
lavoro era la polenta fumante oppure fredda fatta a fette ed arrostita
dopo averla lievemente imburrata e con un pizzico di zucchero,
ovvero: la pulenta rustida. Erano tempi dove quasi tutti avevano
poco denaro, ma tutti avevano da mangiare, ed eravamo anche felici
perché ci aiutavamo gli uni con gli altri. Al sopraggiungere
dell'inverno, che a quei tempi era lungo, freddo e nevoso, raccoglievo
i malgash (pianta del granoturco) da bruciare nel camino che avevamo
ed era sufficientemente grande tanto da poterci entrare e scaldarci
sulle "confortevoli" panchine laterali. Nelle giornate
più fredde, al dopo pranzo, ci si raccoglieva nelle stalle.
Io ero solito frequentare la curt di isacc a volt e la stalla
era quella di paul. Li giocavo a carte, seduto su balle di paglia
e ci si sfidava con le monete fuori corso, quelle del Re tanto
per capirci, il gioco era quello del stop, ora per niente in voga.
Arrivavano delle bellissime nevicate, strade, campi e prati ricoperti
di neve bianchissima. Avevamo anche le nostre piste ove sciare.
Non erano né Cervinia né Cortina ma erano ul pra
del secrista e la riva di faustitt: ci bastavano per divertirci
come matti e poi tutti inzuppati ed intirizziti dal freddo correvamo
a casa ad asciugarci e cambiarci almeno i calzettoni di lana,
che era molto più che vergine. Verso la fine di ottobre
si faceva la nuvena di mort, cioè si andava, a gruppetti,
di sera, al buio, con un freddo boia, alcuni sere con la nebbia
più fitta, fino al cancello del camposanto e durante il
tragitto si recitava il rosario magari con più convinzione
perché, più o meno, qualche caro da ricordare l'avevamo
tutti.
Il giorno più atteso era il Natale, vuoi per le vacanze
scolastiche, vuoi per eventuali regali che Gesù bambino
avrebbe potuto portarmi (babbo Natale non era ancora nato). Aiutavo
a preparare il presepe che veniva allestito sopra il frontone
del camino usando le statuette di terracotta decorata che lasciavano
trasparire tutti gli anni che avevano visto i vari incollaggi
a cui erano state sottoposte. Erano vecchie ma erano molto grandi
e belle, avevano un fascino che non ho mai più ritrovato
in quelle indistruttibili di plastica.
Il Natale portava con sé, oltre a moltissime altre cose
come la Messa solenne cantata dalla Schola Cantorum, già
fin d'allora efficientissima e molto seguita, anche il panettone
che mio zio Achille, di Milano, ci donava contraccambiando per
l'ospitalità che riceveva. La sera di Natale, dopo cena,
la trascorrevo da mia zia Maria spusa per distinguerla da mia
zia Maria ursulina. La mia zia Maria spusa era la zia di tutti
per la calorosa accoglienza che sapeva dare sempre e comunque.
Lì si cantava in allegra compagnia, si era almeno una trentina
e forse più tra parenti ed amici. Si intonavano tutte le
canzoni inerenti il Natale. Erano serate memorabili, non le dimenticherò
mai! Ecco, in estrema sintesi, il racconto della mia fanciullezza
che vuole raccogliere, senza alcuna pretesa, una parte di vita
che certamente hanno vissuto anche i miei coetanei: vita semplice
ma serena e bella anche se non sono mancate difficoltà,
malattie e dolori come in ogni esistenza e in qualsiasi periodo.
Antonio Isacco
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