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La fabbrica dell'inflazione

Ottobre 2007

Quando una categoria di lavoratori produttivi chiede un aumento di salario, dal sistema si leva sempre qualche voce - di solito quella di autorevoli economisti - che mettono in guardia dall’inflazione che questi aumenti possono provocare. Quando la massaia scopre al mercato che le zucchine sono rincarate, i giornali denunciano l’avidità dei fruttivendoli che col loro egoismo provocano inflazione, e invocano il controllo dei prezzi, e punizioni esemplari; i fruttivendoli additano i grossisti, i veri colpevoli; ma costoro lamentano le alte spese di trasporto e distribuzione. Infine la colpa ricade sui contadini - e questi, poveretti, dimostrano che loro hanno venduto le loro zucchine a prezzi calanti, mentre hanno dovuto pagare di più i concimi chimici, i diserbanti, le sementi. Allora il marito della massaia chiede un aumento - non da solo, ma come categoria, perché la vita rincara e lui non ce la fa ad arrivare a fine mese: e l’economista di turno lo accusa. Ecco chi accende l’inflazione. Quante volte abbiamo visto inscenare questa commedia? Questo teatrino del circolo vizioso, in cui le categorie produttive e consumatrici si accusano l’un l’altra di provocare l’inflazione, di fare ingiusti profitti? Non c’è da escludere che, temporaneamente e in modo parziale, una o l’altra categoria davvero speculi, incameri profitti non dovuti, approfittando di momentanei intoppi del mercato, di certe aree di privilegio, di parassitismo. Ma in linea generale, nel gran litigio recitato sulla scena sociale, il vero colpevole non appare mai. E’ per questo che il teatrino viene inscenato. Il colpevole dell’inflazione è il sistema bancario. Il trucco richiede una spiegazione abbastanza lunga. Ma non vi annoierà: finalmente, non è il teatrino. Tutto comincia quando voi mettete nel vostro conto corrente 100 euro, diciamo, che avete risparmiato. Grazie a questo deposito, la banca può prestare all’industriale che ne ha bisogno, mille euro: è il meccanismo del credito frazionale, di cui abbiamo già parlato. Il miracolo consiste in questo: la banca presta denaro che non ha, che crea dal nulla, e ci lucra gli interessi. La banca può scrivere quei mille euro, nei suoi libri contabili, come attivo, perché ci guadagna gli interessi, e un giorno, magari, se lo vedrà ripagare. Nello stesso tempo, la contabilità le impone di segnare una cifra identica, mille euro, come passivo. Ciò perché la moneta creata dal nulla è ora in circolazione, l’imprenditore indebitato emette assegni su quel fido, e questi assegni saranno presentati all’incasso: la banca dunque ha un debito potenziale uguale al suo attivo. Questa passività viene coperta dal debitore con i suoi versamenti periodici per servire il debito che ha contratto. Di fatto, accade qualche volta - accade tutti i giorni - che l’indebitato non possa pagare, fallisca, diventi insolvente. In quel caso, la banca è costretta a registrare quel prestito andato a male alla voce perdite. Non è, diciamolo subito, una tragedia: poiché il 90% del denaro scritto nel fido è stato creato dal nulla, e non costa niente alla banca a parte le spese di tenuta della contabilità, ben poco valore reale è realmente perduto. E’ soprattutto una voce di contabilità. Ma una perdita contabile è pur sempre un male per la banca, perché il prestito andato a male deve essere sottratto dalla colonna degli attivi, senza una corrispondente sottrazione alla voce passivi. Il passivo rimane, e la moneta creata dal nulla è in circolazione, e gli assegni vengono via via all’incasso, anche se il debitore è fallito. E la banca ha il dovere di onorare quegli assegni. Il solo modo di pagarli, è prendere denaro dal capitale della banca - quello che ci hanno messo i suoi azionisti - o dai suoi profitti. Nell’uno e nell’altro caso, sono i padroni della banca a perdere quei mille euro. E per loro, la perdita è reale. Anzi se la banca ha fatto troppi prestiti avventati, e troppi dei suoi debitori risultano insolventi, può accadere che il passivo superi l’intero capitale che i suoi azionisti hanno investito nella banca. In quel caso, la banca fallisce. E’ un vero dolore, per i padroni. Un dolore così forte, che l’intero sistema bancario è collegato per scongiurarlo. No, i padroni non possono perdere. La banca non può fallire. Per questo esiste la Banca Centrale: prestatore di ultima istanza, garanzia che nessuna banca soffra il fallimento, e i suoi padroni una perdita. La Banca interviene, se c’è questo rischio. A noi si dice: interviene per assicurare che i risparmiatori non perdano i loro depositi. Il fatto è che ogni banchiere sa che non gli sarà permesso fallire, e perciò non dovrà rendere conto dei suoi prestiti più folli. E’ per questo motivo che le banche, severissime quando si tratta di prestare 50 mila euro al bottegaio dell’angolo o al lavoratore come mutuo per la casa, sono generosissime quando si tratta di prestare milioni di euro anzi miliardi, a Parmalat, alla Fiat, allo Stato. Aprire un piccolo prestito costa come avanzare un miliardo di dollari dall’Argentina o dalla Fiat, e fa guadagnare meno interessi. E se la Fiat non paga, se rimane in arretrato l’Argentina, è l’intervento della Banca Centrale a salvare il banchiere improvvido, con la scusa che bisogna salvare il sistema; se diventa insolvente l’operaio col mutuo, nessun intervento pubblico lo soccorrerà. Così, la banca presta volentieri agli Stati, allo Stato, a Parmalat, pur sapendoli insolventi. Per capire come mai, bisogna ricordare una cosa: alla banca non interessa che il grande debitore estingua il debito, che restituisca rata su rata tutto il capitale. Quel capitale è al 90 per cento denaro creato dal nulla, e al 10% sono soldi vostri, il vostro deposito. Non è della banca, è vostro, e alla banca non interessa nulla. Quando un debitore estingue il suo debito e restituisce il capitale, per la banca è una noia: ora deve trovare qualcun altro da indebitare. Quel che conta, per la banca, è che il debitore continui a pagare gli interessi, magari in eterno. Perché la banca lucra lì. Perché finché il debitore paga gli interessi, la banca può mantenere il prestito che gli ha fatto alla voce attivi. In questo senso, il debitore ideale è lo Stato, gli Stati. La banca presta allo Stato comprandone i Buoni del Tesoro, che sono cambiali, promesse di pagamento. Ma nessuno si aspetta mai che lo Stato, alla scadenza dei Bot, paghi se non con l’emissione di nuovi Bot, di pari ammontare, a scadenza più lontana. Questo è l’eterno debito dello Stato; non risulta che nessuno Stato sia mai, nella storia, uscito dall’abisso del debito perpetuo. E’ proprio questo a rendere felice la banca:perpetuamente lucra gli interessi sui Bot, e del resto può in ogni momento rivenderli al pubblico. Accade che gli Stati non riescano più nemmeno a pagare gli interessi. Accade sempre più spesso, nel terzo mondo. Ma i tempi non sono più quelli di re Edoardo d’Inghilterra, che ripudiò il debito coi banchieri fiorentini e li rovinò. Oggi, agli Stati decotti non è consentito ripudiare il debito, non è consentito fallire. Non è più permesso loro di rovinare i banchieri. Quando l’Argentina o la Costa d’Avorio, debitori eterni, non ce la fanno proprio nemmeno a pagare gli interessi, la banca li soccorre nel proprio interesse. Se il debitore si dichiara insolvente, la banca dovrà cancellare il prestito dai suoi libri contabili, e pagare con i soldi dei suoi azionisti e padroni la perdita corrispondente. In fondo, basta che il debitore continui a pagare gli interessi su quel debito (non le quote-capitale), sicché la voce continui ad essere un attivo nei libri della banca, e il lucro della banca continui a piovere. Non ha soldi per gli interessi? Ma ci pensa la banca: apre al debitore un altro prestito, creando dal nulla il nuovo denaro necessario perché quello paghi gli interessi. E’ il miracoloso prestito-ponte, tanto praticato verso il terzo mondo. Il denaro fresco non entra nemmeno nel paese; passa da una all’altra scrittura contabile della banca creditrice. Miracolo: il vecchio prestito andato a male resta nei libri come attivo, anzi l’attivo è addirittura accresciuto dal nuovo prestito, e produce ulteriori interessi per la banca. Ma, prima o poi, il debitore comincia ad entrare in affanno. Si accorge che non può costruire una scuola o un ospedale, perché tutto quel che riceve dalle tasse va a pagare gli interessi alle banche creditrici. A quel punto, Argentina o Costa d’Avorio smettono di pagare gli interessi. I banchieri si stracciano le vesti. Fanno la faccia feroce. Minacciano il debitore insolvente: d’ora in poi nessuna banca gli farà più credito. Le due parti s’incontrano, l’autorità politica interviene (lo Stato delle banche creditrici), interviene il Fondo Monetario; alla fine della sceneggiata, immutabilmente, viene raggiunto un compromesso. Il debitore riceve un altro prestito (e sono tre), non solo per pagare gli interessi sui due prestiti precedenti, ma per poter costruire il suo stupido ospedale. E la banca può iscrivere nei suoi libri contabili un altro attivo più grosso, che frutta ancora più interessi e più profitti. In una fase ulteriore - il debitore è ormai nei debiti fino al collo - si ricorre a un altro sistema già perfettamente sperimentato. Le banche vi ricorrono quando tutti gli introiti dello Stato debitore, imposte e guadagni delle esportazioni, vengono risucchiati dal pagamento degli interessi. In questo caso, le banche soccorrono: propongono al debitore una rinegoziazione del debito. Che significa questo: il debito viene prolungato nel tempo. Gli interessi che il debitore deve pagare sono ridotti un poco, ma ora li deve pagare per un numero superiore di anni, di decenni. Il debito raggiunge finalmente lo stato di eternità: lo Stato indebitato intanto paga e paga interessi. Nei libri delle banche, resta il famoso attivo. Ma il gioco, direte voi, non può continuare all’infinito. Ci sarà pur un momento in cui uno Stato sovrano, che affonda in debiti sempre più giganteschi e impagabili, trova il coraggio - come l’antico re Edoardo - di ripudiare il debito. Trascinerà nella rovina le banche? Nient’ affatto. Anzitutto, va detto che le banche hanno già guadagnato tanto, sugli interessi, da poter assorbire una eventuale insolvenza sovrana. Nel 1989, quando si presentò uno dei ricorrenti rischi di bancarotta degli Stati latinoamericani, una rivista americana del settore ammetteva: “a parte i prestiti al terzo mondo, le nostre maggiori banche [statunitensi] funzionano con buon profitto ... ai livelli di profitto dell ‘anno scorso, esse possono, in teoria, assorbire l’intero loro credito all’America Latina in due anni” . In teoria. Perché in pratica, le banche non sono per nulla disposte ad accollarsi le conseguenze della loro folle gestione. Gli azionisti non vedrebbero dividendi per un paio d’anni - oh sciagura - e i direttori centrali, magari, potrebbero venir licenziati. E poi, è una questione di principio: se si spargesse la voce che le banche, almeno una volta, hanno rimesso i debiti, l’intero business andrebbe a catafascio. Accade dunque questo. Il ministro delle Finanze del paese indebitato e il capo dei capi del consorzio bancario che l’ha indebitato vanno insieme dal capo del governo del paese dove hanno sede le banche creditrici. Mettiamo che sia il presidente degli Stati Uniti; gli viene fatto presente che se il debitore smette di pagare, i mercati saranno sconvolti, la finanza internazionale verrà scossa, il credito mondiale si ridurrà a un rigagnolo, il paese debitore cesserà di importare merci made in Usa, insomma il popolo americano ne soffrirà grandemente. La solfa viene ripetuta - con i toni più apocalittici - ai senatori e deputati del Congresso; agitata sui giornali, alle tv dagli esperti consulenti ed economisti famosi. In definitiva, il governo e il Congresso (o il parlamento) vengono convinti che è necessario che loro forniscano denaro fresco - denaro dei contribuenti - al paese debitore, in forma diretta o indiretta; con l’assicurazione che il debitore pagherà gli interessi, non solo, ma con quel denaro fresco attiverà programmi economici lucrosi, che lo renderanno capace di restituire tutto. Di solito, a questo punto, il debitore deve accettare rigidi programmi di austerità, perché non scialacqui quel denaro, ma lo metta a frutto per poter pagare i creditori. Di solito è il Fondo Monetario a coprire questa funzione, come agente dei creditori: di fatto, lo Stato perde la sua sovranità, viene governato dal pignoratore mondiale, che occhiutamente taglia ogni programma sociale - strade, scuole, ospedali - come spese inutili, che sviano denaro dallo scopo supremo: ripagare i creditori. In compenso, le banche accettano - generose - di cancellare una parte del debito. Di solito una parte minima. E’ un gesto utile. Altrimenti, lo Stato sarebbe stato dichiarato insolvente, e il debito cancellato sarebbe stato, per le banche, totale. Invece, con quel piccolo gesto, può continuare la pioggia lucrosa degli interessi. A quel punto, inoltre, il governo Usa - che ha stanziato per legge aiuti finanziari straordinari allo Stato indebitato - diventa garante del debito; se il debitore non dovesse farcela a pagare, pagheranno gli americani. I contribuenti. Già. Perché quel denaro, mobilitato da agenzie internazionali, aiuti allo sviluppo, sussidi diretti, importazioni, che finisce per tornare alle banche via via che il debitore faticosamente paga, è denaro dei contribuenti. O peggio: denaro creato dal nulla dalla Federal Reserve. E via via che questo denaro generato dal nulla arriva alle banche, esse lo prestano, lo iniettano di nuovo nell’ economia statunitense e mondiale: dove si mescola col denaro circolante, e ne diluisce il valore. A quel punto la massaia si lamenta che le zucchine sono aumentate, e incolpa il fruttivendolo. Perché i prezzi salgono. Ma non sono i ,prezzi che salgono, è il dollaro - o l’euro - che perde valore, perché ci sono troppi dollari o euro in circolazione. E chi li ha messi in circolazione? La banca. La madre di tutte le inflazioni.

 
 
 
       

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